C’era un tipo incredibile l’anno scorso quando andavo a suonare all’Acquabella. Stava sempre solo, mangiava solo. Mi dicevano che era meglio lasciarlo perdere perché logorroico. Se attaccava bottone era la fine. Parlava solo di cinema. Lo sentii una sera parlottare di Wenders. Apriti cielo. Dopo pochi minuti intrecciai con lui il primo discorso. Si presentò dicendomi che non aveva ancora 40 anni, viveva con i genitori, frequentava solo signore over cinquanta e non si era ancora laureato. Mi disse che andava bene così, che non era intenzionato a cambiare, era ricco di famiglia, e non avrebbe avuto problemi a proseguire in quella maniera. «Sì lo so, faccio schifo». Lo disse con aria serena, simpatica. Lo salutai e me ne andai a strimpellare. Alla fine mi dissero che era già andato a casa, ma mi aveva lasciato un biglietto. Erano i cento film più importanti della sua vita. Non l’ho più rivisto. E non avendo mai saputo il suo nome non saprei rintracciarlo. Ma una volta a casa ho recuperato la lunga lista di lungometraggi: Ozu, Tati, Tarkovskij. Uno più bello dell’altro. Un bellissimo ed elegantissimo modo di salutarsi e, forse, dire grazie.