Una sera in cui non sono io a cantare e suonare, ma concorrenti per il primo Premio Franco Reitano. Io pesce fuor d’acqua; pesce che sguazza in acque sconosciute; extraterrestre precipitato per caso su quel palco, dove suonai imbarazzatissimo per la prima volta nel 1983, durante uno spettacolo oratoriano. Con me ci sono Vince Tempera, Katia Ricciarelli e il ragazzo che ha vinto San Remo giovani, di cui non rammento il nome. A Vince chiedo qualche info su Guccini, con cui ha registrato l’ultimo cd dell’artista pavanese, ma pare piuttosto defilato, fatica a darmi retta, lo lascio nel suo brodo… Fra gli ospiti c’è anche Spagna; fosse stata la Rettore (che chissà perché associo a lei) sarebbe stata tutta un’altra cosa.
Suonare al Magnolia è piuttosto raro, rarissimo se suoni pezzi tuoi in acustico. Di fatto non era una serata solo mia, ma c’era anche Stefano Vergani. Ho aperto il suo concerto in compagnia di Alessandro Esposito, bravissimo chitarrista di origine brasiliana. Ho suonato Vivian, Sesto San Giovanni, Incubo close-up, Lezioni di mineralogia… Alla fine è venuto a trovarmi anche Antonio di Rocco, cantante dei Matrioska. Benché non sia riuscito a dargli molta retta, mi ha fatto molto piacere rivederlo. C’era con lui una morettina carina di cui non ricordo il nome.
Qualche anno fa ho incrociato Enzo alle Messaggerie. Stava smanettando col telefonino, come se avesse fra le mani un congegno esplosivo. Sapevo a memoria tutte le sue canzoni e avrei pagato per stringergli la mano. L’ho seguito avanti e indietro per corso Vittorio Emanuele, come uno stalker, ma alla fine non ho potuto far altro che tornarmene sui miei passi: troppo timido io, troppo timido lui. Grazie di tutto Enzone, domani non sarà facile cantarti.
Sergione viene a trovarmi alla Galeria. C’è con lui una bella signora, di qualche anno più giovane. Mi racconta che è slovena da parte di madre e che da piccola amava trascorrere le estati poco lontano dal confine con l’Italia. Sfonda una porta aperta, per via della mia spudorata passione per i paesi dell’ex Jugoslavia; peccato non avere abbastanza tempo per chiacchierare. Sergio è su di giri. Li osservo dalla mia postazione e mi sembrano due ragazzini. E’ bellissimo accorgersi che l’età non conta e che il mondo è evidentemente tenuto in piedi da ben altre fantasie, dalla voglia di continuare a scoprire, capire, curiosare. Sergio va a prendere la fisarmonica e si mette a suonare come un selvaggio. Il gestore cerca di annichilire il suo intervento, ma non serve a molto. Tocca a me suggerirgli di mantenere un certo contegno. Zittisce e la serata se ne va.
Nonostante tutto, rimane il desiderio di raccontare storie, anche se in musica se ne raccontano sempre meno. Sedici canzoni, in realtà sedici vite andate, perdute, ritrovate, ricominciate: folk song nel vero senso del termine, bozzetti di quotidianità globale, senza fronzoli, finte, allusioni… “Troubadour” arriva mentre le memorie collettive trepidano nelle nebbie dei secoli e dei decenni, infinitamente lontane da quei signorini che, coperti da pastrani demodé, o cappellacci alla marinara, giravano di tavolo in tavolo, di pub in pub, a diffondere ‘la buona novella’, come un pettegolezzo che potesse servire per destreggiarsi in un mondo sempre più veloce, ma anche più complicato e intransigente. Non si guarda certo alle mode, ma poco importa, quel che vale è la sottigliezza d’intenti, la facilità con cui un sortilegio chiede alla penna di graffiare un nuovo foglio, parafrasando le epopee più diverse, dai caffè del Greenwich Village, al circuito londinese di Soho; da Le Vieux Belle Ville di Montmartre, al Lullaby di Sulbiate.
Zona grigia, malmostosa, sinti e rom, accampamenti di ecuadoregni festanti… dunque il mio ambiente ideale, dove l’ispirazione va a nozze. Così debutto alla Galeria, ex falegnameria dei primi del Novecento, un piccolo museo di arte demodé e artigianato locale. Lo gestiscono Massimo e Katia, attenti e cordiali, ma sulle loro. Hanno l’aria di persone benestanti. Simpatiche anche le cameriere, una ragazza di origine albanese ed Emanuela, assistente di sala di notte, archeologa di giorno. Mi riconfermano per i sabati successivi, mentre il giovedì c’è un signore sulla settantina che gira per i tavoli borbottando Jannacci.
Giochi di parole e diventa Ai-Cure-zio. Incredibile ma vero, il tastierista dei Cure, Roger O’Donnell, s’è messo insieme a un’aicurzese. Lei è Pamela Colnaghi, bellissima, modella, bellissima, modella… lui, altalenante amico del grande Robert Smith, è cresciuto a suon di Zappa, Hendrix e Hancock… ed io semplicemente ansioso di vederli passeggiare mano nella mano per i vivai del conte Trivulzio o lungo le sponde delle foppe cavenaghesi, aspetto l’ispirazione per dedicargli una canzone.
Inizia così la mia avventura solista, in giro per bettole, tuguri, mercati, galere del mondo. Suono solo chitarra e voce, parafrasando i troubadour medievali, gli chansonnier francesi, i folksinger americani; indipendentemente da tutto e tutti, mode e filosofie di pensiero: arte pura, cristallina, intransigente, evocativa. E non è un caso che il primo ingaggio avvenga per due sere di fila Il 4 e il 5 gennaio) proprio al Gatto Nero, cuore dell’Ortica. Pagano una miseria, ma è qui che erano di casa giganti come Enzo Jannacci e Nanni Svampa; dove sono passate mitologie come Fabrizio de Andrè; dove si sono formati i belligeranti Gufi. E’ un tuffo nell’Ottocento milanese, gli scapigliati, le Cinque Giornate, la povera Rosetta… Suono senza amplificazione, perché così desidera l’austero alpino con la barba bianca fino alla cintura che mi guarda malamente non credendomi capace di fare certe robe da osteria. Alla fine me ne vado fradicio di stanchezza e devastato dal tanfo del camino, unica forma di riscaldamento conosciuta. Da questa foto non si capisce granché, ma io sono il tipo che sta dietro alla coppia innamorata, s’intravede il manico della chitarra.