I migliori violinisti

7 aprile 2016

Ho scritto un articolo per Piacenza Sera… in occasione della festa dell’8 aprile… lo riporto integralmente…

Rom e sinti. Bastano due parole per mandare in crisi molti italiani. Un po’ perché quasi nessuno sa la differenza fra i due, un po’ perché da sempre, entrambi i gruppi etnici, subiscono lo stigma della società; e dunque, meno se ne parla meglio è. Ma venerdì 8 aprile è il loro giorno, ossia la Giornata internazionale del popolo rom e sinti. L’ha ufficializzato l’Onu nel 1979. Peccato che nessuno se lo ricordi. A livello istituzionale si fa qualcosa in alcune delle principali città italiane, a Roma e a Milano, a Mantova, dove in piazza dei Martiri di Belfiore ci sarà una vera kermesse in loro onore. Ma il resto dell’Italia sta in silenzio. Il che suona piuttosto inverosimile se si pensa che ogni pretesto è buono per festeggiare qualcosa o qualcuno. Siamo arrivati a fare festa perfino agli asparagi o alla marijuana, ma nulla che riguardi una popolazione che vive con noi da secoli. Rom e sinti fanno parte dell’ampio raggruppamento definito popolazione romanì. Benché dispregiativo, a essi si rifà il termine “zingari”. Sappiamo pochissimo di loro, ed è questo il motivo per cui fra gli europei autoctoni e gli “zingari” non c’è mai stato dialogo. Il risultato è stato una frammentazione culturale che ora con grande difficoltà potrebbe essere rimarginata. Ed è un peccato perché i rom e i sinti sarebbero potuti essere una risorsa, e lo potrebbero ancora diventare se qualcuno avesse il desiderio di affrontarli non solo in termini giuridici e burocratici, ma anche, semplicemente, umani. Arrivano da un lunghissimo cammino iniziato in India mille anni fa. Difficile ricostruire con esattezza la loro storia, anche perché non esiste una documentazione scritta valida (è un popolo che non ha mai fatto la guerra, e quindi poco importante in termini storici). Quel poco che si sa rimanda a un capo persiano che chiese a un leader indiano donne e uomini che potessero rappresentare il suo nuovo popolo; l’attenzione cadde su un’etnia del nord ovest dell’India. Il capo persiano diede agli indiani semi e animali da allevare, ma dopo un anno non avevano prodotto nulla; di fatto, loro non avevano mai lavorato la terra, sapendo in compenso suonare molto bene. Lo scià si adirò a tal punto da costringerli a fuggire; una diaspora che prosegue ancora oggi. Dall’India arrivarono in Persia e in Armenia. Dall’Armenia, ai Balcani, all’Egitto, all’Europa. Non gli andò sempre male. Perché in alcune nazioni ebbero modo di fare valere le loro capacità. Divennero anche fabbri, cavallerizzi, qualcuno perfino si arricchì. In realtà quasi tutti cominciarono a osteggiarli, bollandoli spesso di colpe che non avevano: furti, linciaggi, traffici loschi di ogni tipo. Se c’era qualche casino, era sempre colpa dello “zingaro”. Così sono finiti per essere emarginati al punto tale da non poter più reintegrarsi. Ormai il divario fra la società cosiddetta civile e il popolo rom è così ampia che occorrerebbe un programma di recupero globale, che possa, nei limiti della ragionevolezza, comprendere ogni cittadino italiano. Un impegno difficilissimo; ma anche l’unico in grado di equilibrare davvero le sorti di etnie che non sono state tutte fortunate nello stesso modo. I rom non sono i rumeni. Ma hanno molte cose in comune con altro popolo perennemente in fuga: gli ebrei. E non è un caso che i violinisti più bravi siano rappresentati proprio da rom o da ebrei: il violino era l’unico strumento che si poteva portare con sé dovendo scappare di paese in paese. Oggi la situazione “zingari” in Italia è drammatica. E lo è ancora di più dei decenni passati perché la crisi impera; e il disappunto delle famiglie italiane sempre più in difficoltà mal si accorda con la necessità di servire un popolo che viene erroneamente giudicato parassita. Ma la giornata di venerdì 8 aprile che nessuno vuole festeggiare serve proprio a questo: a capire meglio in che modo popoli diversi possono confrontarsi per crescere sinergicamente. Da qui può partire l’idea di una condivisione culturale che non c’è mai stata; da qui dovrebbe partire la crescita sana di uno Stato che non può e non deve più prescindere dal benessere di chi viene a farci visita o vive al di là dei nostri confini. Sarà questa l’unica vera rivoluzione del futuro.

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