Le elementari di un papà (storiella per Sofi)

21 novembre 2014

Listener

Ho frequentato le elementari negli anni Settanta ed era molto diverso da oggi. Tanto per iniziare non eravamo in via Battisti ma in via Ferrario. Era una scuola degli anni Trenta, divisa in due blocchi, separati da un cortile interno, nel quale ho giocato chissà quante partite a calcio. Ricordo perfino il primo giorno di scuola: mi avevano messo vicino a un bimbo di nome Paolo Gervasoni che, ancora oggi, nonostante siano passati più di trent’anni saluto con piacere. Andavo peraltro a casa sua a giocare a pallone, nel periodo in cui mi chiedevo come si potesse “giocare in casa” fra le mura di un appartamento. «E le finestre non si rompono?», chiedevo ingenuamente.
Durante i primi due anni avevo un maestro molto bravo, con una folta barba. Diceva che ero molto portato per il disegno. Ne feci uno, un giorno, dedicato alla nebbia e lo mostrò a tutta la classe rifilandomi un bel “bravissimo”. Ero abbastanza bravo in tutte le materie. Non dovevo fare molto per stare al passo. E anche coi compiti mi gestivo da solo. Ricordo quella volta che non li feci, non so bene per quale motivo, e che presi, dunque, la mia prima nota sul diario. La sera, preoccupato per la reazione di papà, andai ad accoglierlo sulla porta, dicendogli subito che ci sarebbe stata una “cosa” che lo avrebbe fatto arrabbiare. «Papà», gli dissi appena entrato, «oggi mi hanno dato una nota». Mio padre, capendo che ero preoccupato per una sua sfuriata mi sorrise dolcemente, comprendendo che in fondo non era così grave e che era, invece, apprezzabile il mio senso di responsabilità. Papà, del resto, sapeva anche essere molto severo durante le elementari. Al punto che ancora oggi ricordo i primi due nomi che imparai a leggere: Mirko e Gaia. Rimanemmo un intero pomeriggio sul divano io e lui, e non mi lasciò andare finché non fui in grado di distinguere le lettere e a pronunciarle correttamente.
Cinque anni che, alla fine, sono davvero scivolati via in un baleno. Come un soffio. Ma mi sono rimasti in mente tanti bei “principi”, tanti inizi che poi avrebbero segnato anche la mia vita da adulto. Per esempio la storia. Oggi sono molto appassionato di questa materia, e lo devo senz’altro ai primi studi effettuati alle elementari. Ero in terza elementare e al buon maestro che mi rifilò la prima nota, si sostituì una signora, (per me era una signora, ma immagino che non avesse più di 22 anni!) che un bel dì disse a tutti, «oggi vi presento una nuova materia, così non dovremo più studiare solo l’aritmetica e la grammatica». Benché fossi un tipo vivace e non sempre stessi attento a lezione, ricordo molto bene quel che disse poco dopo: «La materia di cui parliamo si chiama storia». Storia? Wow! Mi venne da esclamare, al punto che, una volta a casa, la prima cosa che dissi a mamma è che avevamo iniziato a parlare dell’uomo primitivo.
Non stavo più nella pelle anche perché in quel periodo stavo facendo una raccolta di figurine dedicata agli animali preistorici e all’uomo di Cro-Magnon, che settimanalmente andavo da solo a comprare in edicola. Conoscevo già molti termini tecnici, anche se avevo solo otto anni, come “amigdala”, uno dei tanti strumenti utilizzati dai primi uomini per lavorare le pelli. Ebbene, mi piace pensare alle elementari, perché in fondo tutto è partito proprio da lì, da quel giorno in cui scoprii che prima di noi c’erano state tante altre persone, con mille storie da raccontare. E non è un caso che alla fine sia divenuta proprio la mia materia preferita, che – se riferita alle fasi precedenti l’invenzione dell’agricoltura – viene chiamata più correttamente “antropologia” (o preistoria). Lo preciso perché poi, crescendo, e capendo meglio cosa volessi fare da “grande”, intuii che fosse proprio l’antropologia la disciplina scolastica a cui avrei dato tutto me stesso.
Ricordo che c’erano infine un paio di bambinette che mi piacevano, e con le quali spesso si scherzava auspicando chissà quali amori futuri. Un giorno un mio vicino di banco si rivolse a una delle ragazzette per cui avevo un debole, prendendola in giro e dicendole che mi amava. Lei anziché mandarlo a quel paese, gli disse, in mia presenza, che, in effetti, ero un bel tipo. Fu per me una gioia immensa, che sfogai correndo avanti e indietro per il giardino della nonna in maniche corte, anche se aveva appena nevicato. Dulcis in fondo, quella bambinetta l’ho poi “rivista” su Facebook qualche anno fa. Inutile che spieghi la delusione che provai quando mi scrisse che non si ricordava più nemmeno chi fossi.


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